Press review

Fotocrazia, Blog di La Repubblica del 24/12/2018
Foto o son testo? Vi propongo una sfida
Adesso so cosa rispondervi, cari amici fotografi. Quando mi chiedete con dolce insistenza di scrivere una prefazione, una postfazione, una introduzione, insomma un testo per i vostri libri.
Una richiesta che mi fa piacere, che trovo perfino lusinghiera, anche se non sempre riesco purtroppo a soddisfarla. Quasi sempre per motivi di tempo, qualche volta perché, e ve lo dico francamente, non credo di aver nulla di sensato da dire sul vostro lavoro, spesso distante dalle cose di cui mi occupo. Non amo scrivere di cose che non conosco e non capisco.
Dicevo, adesso so cosa dire quando, purtroppo, devo rifiutare. So quali parole usare per non urtare la vostra sensibilità e gentilezza.
Le vostre stesse parole. Quelle che forse pensate, ma non dite. E cioè, che un testo, nel libro di un fotografo, è un ospite ingombrante, spesso irritante, quasi sempre sgradito, da sopportare con un po’ di rassegnazione, addirittura da subire come una imposizione.
Alcuni di voi le hanno dette apertamente, queste cose pensate che non si dicono. Devo ringraziare Luciano Zuccaccia, fotografo, che (senza peraltro dire la sua…) gliele ha cavate di bocca. Nel suo interessantissimo libro Un mondo di libri interroga una dozzina di fotografi rinomati, oltre a un paio di professionisti dell’editoria, sul loro rapporto con il libro come destinazione del lavoro fotografico. E in ogni intervista, con una assiduità che nasconde mi pare una punta di provocazione, piazza la domandina: cosa ne pensi del testo nei libri di fotografia?
Bene, ecco quel che pensano. Son tutti più o meno d’accordo con Guido Guidi, che lo dice senza diplomazie:  “Raramente sono utili e molte volte sono pretestuosi, quando non retorici e ingombranti. Nel ’68 eravamo più inflessibili e non volevamo questi pistolotti, poi ci siamo addomesticati”.
Se potessero, ne farebbero a meno. Potendo, ne accettano il minimo sindacale. Gianni Berengo Gardin: “Sono convinto che i testi nei libri di fotografia debbano essere brevissimi, perché se sono troppo lunghi nessuno li legge”. Mimmo Jodice: “Se ci sono pochi testi, il libro risulta più leggero e godibile. Se me ne fosse data la possibilità farei un libro senza testi, senza note, senza biografie”
Perché no? Perché non escono libri di pure immagini? Del resto ce ne sono stati, anche celebri come quello che Richard Misrach pubblicò nel ’79, senza neppure un titolo (c’erano autore editore galleria data e prezzo solo sul dorso). Periodicamente qualche editore che si stima rivoluzionario prova a lanciare una collana no words. Di solito chiudono in fretta. Senza testo, sembra brutto.
Insomma il testo “ci vuole”, ma è mal sopportato, subìto, invasore. Vincenzo Castella: “… si va alla ricerca di un nome di richiamo, spesso voluto dall’editore, un personaggio che scriva un testo magari non attinente al resto del lavoro, talvolta noioso e che sembra andare bene per qualsiasi progetto”. Un po’ di piombo grigio all’inizio, perché aprire un libro senza neppure un “benvenuto, si accomodi” pare brutto. Il testo per dare un contesto.
Poi magari c’è anche un po’ di ego. Del fotografo. Nicola Lorusso: “Certo che a volte capita di leggere dei testi pieni di elogi per il fotografo e di disquisizioni incomprensibili [che] mi fanno pensare a un certo complesso di inferiorità”.
Il testo per dare un po’ di lustro. Roberto Salbitani: “I fotografi hanno spesso complessi di inferiorità verso le arti e questo comporta la ricerca del testo ‘patacca’, cioè dello scritto che suona la grancassa sulle qualità eccelse del fotografo”.
Ma in questi casi il fallimento è garantito.Raffaela Mariniello: “In qualche modo il critico può anche gratificare il fotografo, ma capita spesso che non sia in sintonia con le immagini e l’opera fotografica”. Paolo Ventura: “Gli editori hanno la pessima abitudine di legare un testo a un racconto per immagini, spesso scritto da una persona che scrive una storia dal proprio punto di vista e che talvolta non coincide pienamente con il pensiero dell’artista”.
Solo un intervistato, Giovanni Chiaramonte, rendiamogli onore noi uomini di parole, ringrazia gli autori dei testi dei suoi libri perché gli hanno dato “ragioni di cui io stesso none ro cosciente, compito che credo spetti al critico”. (Ma Chiaramonte fu, per qualche tempo, anche un editore…).
Certo, se i testi sono scritti in critichese, in prefaziese, avete tutta la mia solidarietà comprensione e simpatia. Qualcuno ricorderà che di quello stile pantagruelico e vuoto siderale feci una antologia-parodia…
Chissà se il compromesso giusto non sia quello di Antonio Biasiucci: “Nei miei libri i testi sono scritti da persone con le quali sento una vicinanza, persone di cui ho una profonda stima e di cui conosco bene il pensiero”.
Sarà sufficiente? Non sembra comunque quello che sembra, un ossequio a una specie di legge editoriale? Mal sopportata, poco giustificata, quasi sempre inutile?
Non esistono immagini che ci arrivino nude, non circondate da un contesto di pensiero che quasi sempre è espresso in forma verbale.
Non esistono libri davvero senza titolo (quello di Misrach lo trovate in vendita comeUntitled Photography Book…), senza colophon (c’è una legge che lo impone), non si può impedire che un libro di sole immagini venga recensito (impedireeee? Ma no, recensiteci, recensiteci, anche se detestiamo le parole nei nostri libri, scrivetele nei vostri giornali….), che se ne discuta, che se ne parli.
E allora? Vorrei chiederlo ad alcune gentili amiche che si sono dedicate a questa relazione pericolosa, fra testo e immagine, Federica Chiocchetti con il suo sitoPhotocaptionist o Simona Guerra col suo gruppo Fotografia e scrittura.
Togliamo il velo a questa cortesia un po’ di maniera. Proviamoci. Diciamocelo in faccia, che noi di parola e voi di immagine siamo come acqua e olio. Scuotendo ben bene si può ottenere una emulsione. Ma non ci si mescola davvero mai.
Oppure No? Apriamo un dibattito. O un duello. Noi diremo le nostre parole, voi mostrerete le vostre foto. Che succederà?

Michele Smargiassi